A scanso di equivoci, il Dizionario della lingua italiana Devoto – Oli recita: "FOLLIA - Stato di alienazione mentale determinato dall’abbandono di ogni criterio di giudizio, pazzia, demenza. ALIENAZIONE - La condizione psicologica, propria dell’uomo moderno che non si riconosce più nei beni materiali che produce nella sua stessa attività, consistente in un suo estraniarsi progressivo da se stesso e dai fini e dai mezzi della civiltà industriale. Gener. insoddisfazione, disagio esistenziale". L’intreccio tra musica e follia è intenso e profondo da secoli. Figure di compositori, interpreti e attori dell’azione sonora l’hanno illustrato, sia con vicende personali spesso tragiche, sia con la volontà espressiva di rappresentare il tracollo della mente umana attraverso forme, sonorità e ritmi diversissimi tra loro, spesso caratterizzati da tinte molto forti. Ma è solo con l’avvento dello stile di vita moderno dell’occidente industrializzato che l’innesco della patologia mentale si è ingigantito e ha creato un più fertile terreno dove farla attecchire: la difficoltà dei rapporti interpersonali, la solitudine montante nel marasma di tanti pseudo-contatti, la difficoltà di sentirsi utili, amati, ‘vivi’, nonché l’incapacità di gestire direttamente la propria esistenza senza influenze esterne soffocanti. In una parola, l’alienazione. Una sorta di zona grigia dove l’individuo stenta a ritrovarsi, in balia dei flutti che la vita gli sbatte contro, senza sbocchi o risposte valide, senza intravvedere la pace. Un grande musicista ha descritto nella sua poetica tutto questo, mirabilmente, sin dai propri esordi all’inizio del XX sec. : Alban Berg. Nato a Vienna nel 1885 da una famiglia benestante compie studi di pianoforte, cominciando a scrivere musica all’età di 16 anni. Nell’adolescenza i suoi interessi si aprono, oltreché alla musica, soprattutto alla letteratura e alle arti figurative. Frequenta Peter Altenberg, Karl Kraus, gli aderenti alla ‘Sezession’ tra cui Klimt, e altri. Mahler è ovviamente il suo idolo tra i musicisti, ma ama in pari misura scrittori e drammaturghi come Ibsen, Strindberg e Wedekind. Ventenne, Berg assisterà nel 1905 alla prima rappresentazione de Die Büchse der Pandora (Il vaso di Pandora) di quest’ultimo, organizzata per pochi intimi da Kraus, lavoro che influenzerà in modo decisivo la sua poetica. Scelta la strada della carriera di compositore, nell’ottobre 1904 avviene il decisivo incontro con quello che sarà il suo unico maestro, confidente, consigliere e sostenitore: Arnold Schönberg. Sotto la sua egida, insieme con l’altro talentuoso allievo del Maestro, Anton Webern, Berg costituisce quella che è comunemente nota come ‘la seconda scuola di Vienna’, detta anche ‘scuola dodecafonica’. La dodecafonia, il metodo di composizione creato a inizio anni venti da Schönberg, nasce dalla necessità di superamento del vecchio linguaggio tonale tradizionale e viene avvertita come l’ormai ineludibile riordinamento della disorganica ‘atonalità’, caratterizzando un’intera epoca e influenzando in modo assolutamente decisivo tutto il cammino della composizione nel ‘900. L’uso della serie – la stringa base di 12 note su cui ogni musica di questa nuova tecnica deve fondarsi – è reso attraverso la sua manipolazione da parte del compositore con inversioni, moti retrogradi, ecc., determinata in ogni particolare. Spesso è proprio la rigidità il punto debole di questo metodo creativo, cui non sfugge a volte lo stesso caposcuola Schönberg. In realtà, è lo stesso Berg l’artista più affrancato dai dettami del movimento, in grado di mediare tra recuperi delle poetiche precedenti (Mahler su tutti, ma anche Debussy) e la novità del linguaggio seriale, con una unità stilistica e una omogeneità sbalorditive, insieme a una vena di lirismo sapiente. Subito dopo il conflitto mondiale, cui parteciperà come impiegato al Ministero della Guerra a Vienna, Berg ultima nel 1922 il suo primo capolavoro: Wozzeck, su libretto proprio. Grazie al generoso sostegno di Alma Mahler riesce a pubblicarne privatamente la partitura. La circolazione dell’opera, grazie all’immediato interesse suscitato dalla forza drammatica del soggetto e dalla novità della musica, modernissima e al contempo così fortemente plastica e ofisticata, in contra il favore dei pubblici più aperti d’Europa. Il 14 dicembre 1925 Erich Kleiber – grande ‘generalmusikdirektor’ a Berlino e padre del futuro astro del podio Carlos – dopo aver piegato molte resistenze e veti, ne dirige la prima nella capitale tedesca propiziandone il pieno successo. È la svolta nella vita e nella carriera di Berg. Solo l’ostracismo nazista sarà in grado di fermare nel 1933 il sogno realizzato, ricco di tanti trionfi. La genesi di Wozzeck è lunga. Nel 1914 Berg assiste a Vienna alla pièce originale di Georg Büchner, Woyzeck, basata su un uxoricidio compiuto realmente nel 1821 da un uomo, per gelosia. La salute mentale dell’assassino era stato oggetto di un lungo dibattito cui Büchner si era appassionato. Il testo in mano a Berg però era stato, negli ottant’anni intercorsi, assai manomesso e persino il nome del protagonista era stato trascritto sbagliato: Wozzeck anziché Woyzeck . Quando nel 1920 esce la prima edizione critica basata sui manoscritti originali, Berg, che intanto ha quasi completato l’opera, decide di lasciare tutto com’è, nome errato del protagonista compreso. Molte testimonianze ci rivelano come il Maestro è colpito, quasi sconvolto in prima persona, dalla vicenda di questo povero, umile soldato, angariato e sfruttato dai superiori, emarginato e condannato a una disperazione senza via d’uscita, a una ‘alienazione’ che ottunde le sue facoltà, accecandolo di gelosia verso la sua donna, Marie, che colpevole di averlo tradito col tamburmaggiore del reggimento merita dunque la morte. Dopo averla uccisa, la follia lo accerchia senza pietà, non gli dà tregua – la potentissima scena della taverna - stordisce la sua mente concentricamente divorando il suo essere e lo attira nella palude del delitto, affogandolo nell’acqua dove cerca di pulirsi dal sangue di Marie. La terribilità di questo dramma è coronata infine dall’aspetto forse più tragico di tutti. Nell’ultima scena, il figlio di Wozzeck e Marie gioca con gli altri bambini quando gli viene detto che i genitori sono morti. Ma lui continua a giocare come se tutto questo non lo riguardasse. La dolce indifferenza del mondo, come Camus farà dire anni dopo al protagonista del suo Lo straniero . La verità più cruda e diretta. Come pubblico, abbiamo bisogno del Wozzeck perché è l’affresco musicale tragico del ‘900 forse più compiuto. Una vertiginosa descrizione della difficoltà umana attraverso la storia dell’individuo piccolo, insignificante e indifeso, che si trova a dover fronteggiare forze che, proprio come nel XX sec., indirizzano in modo schiacciante la sua e le altre vite, giustificando il senso pienamente pessimistico, certamente espressionista nel carattere e nel linguaggio, di questo capolavoro assoluto. Pochi anni dopo, tra il 1925 e il 1926, in seguito alla tormentata relazione con la coniugata Hanna Fuchs-Robettin, Berg compone il suo supremo lavoro cameristico: la Lyrische Suite per quartetto d’archi. Manifesto di una cosciente azione drammatica, la composizione si articola in 6 movimenti, alternanti via via un andamento sempre più veloce a uno sempre più lento (i dispari accelerano, i pari rallentano) [v. fig.]. L’evidente pulsione divergente del costrutto, la spasmodica e concentratissima distribuzione dei piani sonori, l’eccezionale varietà timbrica, frutto di uno straordinario uso degli archi, per ottenere effetti visionari d’indimenticabile suggestione – quasi nuvole sonore – ci consegnano il massimo cimento per quartetto dell’intero ‘900 e uno dei più fulgidi esempi di poesia materica di tutti i tempi. Lo straziante lirismo, urlato nei movimenti veloci, si fa meditazione e contemplazione pura nei movimenti sempre più lenti, approdando al sesto e ultimo, indicato ‘largo desolato’, confine dove cuore e mente, sfiorando con l’orecchio il silenzio sempre più incombente, si affacciano sull’abisso del nulla. ...E poi c’è Lulu. Il Maestro comincia a scrivere questa sua seconda opera nel 1928, rielaborando in profondità e sintetizzando in un conciso libretto le due tragedie di Wedekind Die Büchse der Pandora, di cui abbiamo già detto, e Erdgeist. Dunque il ‘tarlo’ di Wedekind matura più di vent’anni dopo. Lulu impegnerà Berg fino alla morte, che lo coglierà inopinatamente presto, a cinquant’anni, nel dicembre 1935 a Vienna, per colpa di un ascesso mal curato causato dalla puntura di un insetto nell’agosto precedente. Artisticamente il lavoro può dirsi pi enamente compiuto, anche se mancante della stesura orchestrale definitiva del III e ultimo atto completato da F. Cehra, e fu eseguito, dopo la revoca del veto della vedova, addirittura nel 1979 a Parigi sotto la direzione di Pierre Boulez. Berg definisce tutta l’architettura essenziale in un insieme di ferrea logica e delirante poesia. Ferrea logica perché la superiore capacità di sintesi – che solo un perfetto drammaturgo musicale possiede – gli permette di condensare in 7 scene le due tragedie originali, con un’energia concentratissima in grado di liberare risorse espressive davvero inimmaginabili. Nel percorso in 3 atti si dipana simmetricamente la ‘carriera’ di Lulu, misteriosa e bellissima immagine di eros-thanatos che non può che trascinare se stessa e chi le si avvicina nel gorgo della distruzione totale. La sua parabola sale, dalla morte del primo marito all’inizio dell’opera, seguita dal matrimonio col pittore con cui lo tradiva, fino alle nozze col ricco Schön – figura centrale del dramma che aleggia su Lulu sin dall’inizio della vicenda, come suo stupratore in passato, poi come amante- padrone – la cui morte, causata da Lulu all’inizio del II atto, innesca la fase discendente della trama. La prigione, le fughe prima a Parigi poi a Londra, s’intrecciano a ricatti, inganni, eros e morte. Proprio a Londra, Lulu si prostituisce per campare e muore uccisa da Jack lo squartatore. La delirante poesia di Berg affresca un’umanità decadente, vittima del perbenismo borghese, incapace non solo di dire la verità ma addirittura di credere che esista una verità, proiettata verso il nulla in una dimensione di bellezza alienata che, nella mancanza di certezze, si riveste di una mortale tenerezza. Tutto pian piano svanisce, la follia è nella vita, l’alienazione è il sogno della realtà. Scrisse Montaigne: "la nostra follia è più importante della nostra saggezza, i nostri sogni valgono più dei nostri discorsi".

Paolo Brecciaroli (Riproduzione vietata)